Antonio Izzo e Gianni Rossi in mostra a Mantova 23 febbraio – 7 marzo 2019
La Galleria Arianna Sartori di Mantova, nella sede di via Cappello 17, dal 23 febbraio al 7 marzo 2019, presenta opere recenti, in tecnica mista, dei due artisti aniconici dell’area campana, Antonio Izzo e Gianni Rossi.
La mostra si inaugurerà Sabato 23 febbraio 2019 alle ore 17 alla presenza degli artisti.
“Da anni Antonio Izzo e Gianni Rossi saggiano i loro studi e i loro interventi in mostre di gruppo; hanno voglia di esprimersi, di “esserci”, di discutere. È chiaro che la prospettiva del domani è nell’attualità dell’arte. Il loro procedere è un gioco sottile di rimbalzi; orizzonti, profili, panorami s’interconnettono nelle frontiere comuni. Il loro cammino è accattivante e il loro impegno è sincero; finitime sono le loro impostazioni, e, tra le loro opere, si colgono, si avvertono e si percepiscono “scambi di confine”, nell’alveo di produzioni serissime e nel concreto ventaglio di traguardi raggiunti, già, coerentemente, alle spalle”.
Maurizio Vitiello
La Galleria sarà aperta al pubblico dal Lunedì al Sabato 10.00-12.30 / 15.30-19.30, chiuso festivi.
Narrazioni essenziali
Segno e dinamismi nell’opera di Antonio Izzo
Antonio Izzo, versatile e polimaterico, acuto interprete del segno quale espressione slegata dalla logica ma carica di liricità e fantasia, propone una ricerca incentrata sull’efficacia e sull’incisività del gesto. Ispirazione è il vissuto, la memoria, la strada, i muri, le forme organiche trasformate o sublimate da un’osservazione profonda e partecipata. L’artista si oppone ad una pittura statica e realistica e si concentra sulla definizione coloristica di energia, di visibilità. Anche il supporto scelto deve avete un trascorso, raccontare una storia, esso diventa, in primis, la narrazione di un’esperienza, dapprima personale poi collettiva. Quest’ultimo aspetto prende tutta la sua forza da un modus operandi autentico e imprescindibile: l’origine è sempre l’elaborazione e la costruzione di un collage che diviene fulcro e cuore delle composizioni realizzate su tele, anche datate, sue intorno al quale avviene la riflessione, lo studio e lo sviluppo dell’intera opera. Le suggestio ni del graffitismo, risultano, poi, interessanti e indispensabili, poiché con esse l’arte diviene interpretazione illustrata della realtà esterna che, prescindendo da riferimenti retinici espliciti, propone forme essenziali scaturite direttamente dal patrimonio della cultura comune, umana.
Antonella Nigro
Antonio Izzo continua a sviluppare programmi compositivi agili. A memoria calma e raffreddata, possiamo sottolineare che la produzione artistica dell’artista deriva da seduzioni e articolati recuperi; da seduzioni perché ha sempre inseguito e sostanziato percorsi della sua ricerca tentando di indagare su vari, complessi e specificati tagli estetici e da recuperi, perché per lui nessun “materiale di risulta” può considerarsi tale, dato che potrebbe avere ancora in sé un lancio di sfida all’estetica. In una complessa rete di riverberi di cuore e di segni rugosi, tutti tesi a pronunciare una storia di rimandi estremi, e in una sorta di affrancature emotive e di “scarabocchi”, che indugiano e indagano su variabili “altre”, corrispondenze astratte declinano variegate sequenze immaginative di riscontri intuitivi. Izzo, ora, rientra con un certo carattere ed espone con una più determinata continuità, da solo e con un gruppo di amici-artisti. La voglia di segmentare e approfondire per accertare reali posizioni di giudizio combina un ductus, in cui viene tracciata la redazione di una scrittura da corsivo dinamico al posato manifesto. Le sue opere meritano attenzione da parte della stampa e della critica, come le opere degli altri due amici artisti, Ferrigno e Rossi, perché incapsulano ardenti sommovimenti, utili frazioni di ricerca e un’incontrovertibile vertigine di riferimenti. Con le ultime produzioni tende a esplorare, ulteriormente, i limiti e i confini di una diversa percezione dell’arte, il che non guasta. Antonio Izzo non è, assolutamente, ancorato alla tradizione, né è allineato alle morbide posizioni di moda del momento, che nascono da interessi di mercato, ma spinge a una risemantizzazione del telescopico astratto-geometrico. Antonio Izzo ha dalla sua differenziate esperienze e su queste ha sempre navigato consapevole per approdare a una “cifra” di lettura, che vede l’uomo e il suo desiderio di vita, convintamente, descritto in un accordo dai mille risvolti. In tele e carte collega uomo e domani, in un divenire senza tempo. La moderna tecnologia e il suo status avanzato sono controllati, esaminati e rilanciati in uno scenario futuribile, tra rimandi e furbizie segniche. La scienza sta progredendo a passi sostenuti e incontenibili e, talvolta, si sostituisce o s’integra nella potenza ambientale decretando problematiche, non effimere, e se l’artista rileva, dalle membrature della natura e, chiaramente, dalle sue trasformazioni, la ricaduta, in parallelo, geometricamente funzionale determina aggettivate elaborazioni di temperamento astratto. La scena composta può sostanziare una rapida sintesi e l’artista appronta e contestualizza, con mano rapida e sicura, apparati e risultati in soluzioni grafico-pittoriche, che stringe su formulazioni inquiete. Ma anche singolari associazioni intervengono in altre stesure. Su dati aggregati, su bivalenze, su comparazioni si muove la pittura di Antonio Izzo, tutta tesa a sottolineare stime binarie, ricerche del doppio, strategie per multiversioni. E negli assemblaggi di materiali di risulta combina ciò che è stato, anche, meccanicamente in azione, con elementi segnico-cromatici d’indubbia, invitante, lusinga estetica. Tangibili pezzi vengono riproposti con abilità per ridisegnare possibili rinascite. Da condizioni obsolete si passa a condizioni di vitalità visuale, suggerite da una creatività, e cosciente. Se il sistema aliena, il potere dell’immaginazione può condurre altre verifiche e rinfrancare altre segnalazioni, sino a riabilitare e a ripristinare il già consumato per estendere una vita di fluttuanti segni , nonché addizionate campiture. Un sottile “stupor mundi” pervade le opere di Antonio Izzo, che vengono fuori da un “mare magnum” di situazioni e circostanze visive e, certamente, si sollevano dall’anestesia etica collettiva e intendono significare, perché vogliono dire ancora qualcosa, scivolando in un codice eminente e franco. Da equilibri sensibili a tecniche miste indicative, di uno spedito “melting pot” culturale, si sedimentano le dimensioni poetiche dell’artista impegnato a pedinare preziosi sogni fantasmatici, attraverso incredibili reliquati memoriali. Queste opere di Antonio Izzo devono essere lette con attenzione, perché crediamo che nelle sue elaborazioni s’innalzi il cuore dell’arte, che inganna e rivolge a sé la ragione della ricerca. Antonio Izzo misura il suo tempo con uno “screening” oculato, attento su tutto ciò che trova e che può riabilitare. In conclusione, possiamo segnalare che reintegra la percezione dell’occhio estetico e riporta, con candore, a vivificare il “fil rouge” dell’estrema esistenza di segni incisi, di meccanismi riabilitati e di oggettive incidenze astratte. Insomma, converte, in un sistema coordinato di tagli e pressioni, dimensioni e dispositivi, perché vivano un seguito di un arco vitale.
Maurizio Vitiello
Un viaggio tra spazi astrali, misure di stabilità e di perfezione, nostalgie di identità Limpidi, quasi perentori, i risultati che Gianni Rossi affida a queste icone, riguardanti dei simboli, tra i più universali e suggestivi frequentati dall’immaginario umano (e forse non solo umano), quelli dello zodiaco. Ma, a monte, avventurosa ed eccitante è l’esperienza fatta dall’artista tra spazi astrali e moduli di perfezione, movimenti circolari, immutabili, senza inizio e senza fine del cielo e degli astri. La cifra costitutiva di tanta armonia e, insieme, di una palpitazione in sé raccolta di vibrazioni dell’essere è il cerchio, che assicura all’intero cosmo una stabile casa, dove ogni punto ubbidisce a simmetrie e concordanze. Certo, la modernità, quasi d’impulso del nichilismo, ha proposto una realtà in movimento di sfondamento delle certezze e delle rassicurazioni precedenti, ma è pur vero che, per tale via, voleva rottamare clamorosamente l’insieme degli idola che ingombravano gli orizzonti della ricerca. La modernità, in rapporto alle sue stesse premesse, non poteva non tentare, anzi doveva tentare di fare guasti tra i reticolati delle acquisizioni e dei teoremi del passato, doveva saggiare le vie di fuga e di allontanamento dal centro, ma esagerava nel pretendere di mettere in movimento una nuova e totale palingenesi del mondo, in breve un discentramento, una rottura definitiva del cerchio. La fuoriuscita dal cerchio non c’è stata, non poteva esserci. Uno dei più suggestivi e autorevoli critici del secondo Novecento, Georges Poulet, si chiede giustamente, riguardo ai progetti di modificazioni del cerchio, come si possa pensare di modificare una forma perfetta quale il cerchio, che è per sua costituzione immodificabile (Les métamorphoses du cercle). Piuttosto, non si può non prendere atto che questa forma, nel corso del tempo, si intride di nuovi interrogativi e viene assumendo sempre nuovi significati, che occorre indagare, per mettere in luce il variare delle declinazioni delle relazioni dell’individuo con sé stesso, cioè con la sua intimità, e col mondo. Il nodo, dunque, da sciogliere, per gli scandagli critici, è fondamentalmente di interrogazione e di disoccultamento dei nuovi messaggi e dei nuovi contenuti semantici e moduli espressivi intercettati e suggeriti al proprio tempo come significativi e dirompenti da autori singoli, gruppi, movimenti. Ed è esattamente questa la via da seguire per una lettura del viaggio fatto da Gianni Rossi attraverso gli spazi astrali, con stazionamenti presso ciascuna costellazione dello zodiaco, entro le atmosfere magiche del cerchio e della sfera. L’artista, modernamente avvisato che la mimesi oggi deve poggiare sulle griglie della variantistica e dell’inedito, filtra il tutto attraverso un candore proprio di chi non fonda il suo discorso su certezze prefabbricate, su mappe precostituite, su formule vulgate e note, ma viene a contatto con il fantasma intercettato, come se fosse il primo a imbattersi in esso e a registrare la sua presenza. Nel caso di Gianni Rossi, egli mette, naturalmente, a disposizione della poiesi la maturità e la coerenza del fare pittura, nel pieno di un’attività severamente vigilata dall’intelligenza, un’intelligenza che da molti anni ha trovato un suo ubi consistam e che d’altra parte si è resa conto che gli strumenti espressivi a cui si affida l’autore, possono portare e portano nei fatti a risultati che vanno oltre le attese e i calcoli dell’operatore, facendo giungere l’artista a meravigliarsi infine lui per primo dell’evento. Tra i punti fermi del fare di Rossi, è, non da oggi, una netta presa di posizione contro il nomadismo artistico, tanto diffuso dal secondo Novecento in poi, che va bene per gli autori di debole personalità. Da decenni, egli si è attestato sul versante dell’aniconico sotto il controllo di una razionalità geometrizzante per moduli sia euclidei, sia non euclidei. La spazialità da lui inquisita è simultaneamente della realtà interiore e della realtà esteriore, dove si proiettano suggestioni e interrogazioni fulminanti della pittura astratta dai futuristi e dal Bauhaus in qua: Kandinskij. Léger. Klee, MaleviĈ, Rodčenko, Mondrian, El Lissitzky, Klein. Il suo linguaggio, estremamente coerente, ha una cifra distintiva: la retinicità che perfora porte e muri, che consente esplorazioni di abissi, come di cieli e di acque, oltrepassamenti del minimo e del massimo, assaggi dei confini dell’immaginario. Ed è qui, in questo percorso inappagato e inappagabile che egli scopre il se nso del fare arte ai fini di un attingimento di situazioni in transito e in sospensione fra luci che si accedono sia all’interno, sia all’esterno in altre impreviste luci, accennando a forme, linee, cesure in dissenso totale da ogni vocazione di tautologica mimesi del visibile e dell’immaginabile. L’autore stesso resta incantato dal succedersi degli eventi e assume una posizione di straniamento e insieme di giocosità, di fronte all’inafferrabilità della vita, alla vicinanza delle lontananze e alle lontananze della vicinanza, ai sospetti dell’incertezza del raggiungimento finale di coste e spiagge stabili e definitive. Non è assolutamente un caso quest’ultima opzione per il viaggio fra le costellazioni dello zodiaco, che ha rappresentato e continua a rappresentare presso tutte le culture, dalla Cina all’India, dall’antica Babilonia all’Egitto dei faraoni, dalla Persia al Tibet, dai paesi scandinavi ai paesi musulmani e all’Africa, dall’America del nord a quella del sud, dalle isole oceaniche all’Australia, uno dei contenitori più ricchi e lievitanti di simboli. D’impulso delle suggestioni di questa selva di simboli è sorta l’astrologia, che si è venuta ponendo in essere in molteplici declinazioni e interpretazioni, preparando, intanto, il terreno adatto per la nascita e l’affermazione dell’astronomia, costituita a sua volta su rigorosi postulati scientifici. Ciò non ostante, l’astrologia non è finita, né può finire, se ad animarla sono gli astri, con le loro meraviglie, con i loro rinvii e allusioni a forme di bellezza superiore, a intrecci complessi di regolari interazioni o incompatibilità di corpi e di presenze a livello universale. Ma che cosa ci dice in concreto questa avventura di Gianni Rossi fra le costellazioni zodiacali? Ci dà un chiaro avviso già l’insieme dei materiali, dei colori, delle tecniche di supporto delle opere. Sotto tale aspetto, è eloquente il ricorso, per i materiali, alla carta vetro di diverso colore, alla carta colorata, al cartone pressato sagomato, al legno sagomato, alla sabbia di mare, alle foglie oro ed argento, alle tavole di legno quadrotte 40 x 40 cm. Per i colori, l’autore si è servito esclusivamente di acrilici + titalina. Tutta questa attrezzatura parla il linguaggio della quotidianità e dell’artigianalità, dell’umiltà dell’operatore nell’affrontare anche una vicenda come quella zodiacale, per la quale egli vuole conservare una sigla di terrestrità e di identità conquistata attraverso la manualità. L’artista procede per misure laiche e secolarizzate di accortezza tecnica, guardandosi bene dalle concessioni ai rituali fabulatori e miticizzanti. Questa su a ferma opzione è confermata anche da un dettaglio, non trascurabile: dopo oltre un trentennio, durante il quale aveva escluso in assoluto dalla sua pittura il ricorso al colore nero, Rossi finalmente deve dargli cittadinanza riguardo all’icona del Capricorno, perché, come dice lui stesso agli amici, il nero è il colore prediletto da tale segno. E anche in questo egli conferma la sua coerenza e la sua laicità, nel rispetto dell’esistente e di quanto aspetta di venire alla luce attraverso la dicibilità. La vera laicità consiste, infatti, nell’includere, non nell’escludere, nella disponibilità a modificare le proprie posizioni, ad arricchire le opportunità dell’espressività. E il colore nero apre orizzonti vasti alla cromaticità in quanto polo opposto al bianco e quindi risorsa per tutto ciò che non si concede al bianco, come, ad esempio, le atmosfere del mondo ctonio. Questa solida griglia di coerenza e d’intelligenza aperta è di appoggio all’operazione centrale dell’artista, che si concede quest’avventura (ariostesca) fra gli astri. Che non è di evasione o di regressione di fronte alla realtà. Tutte queste opere, infatti, sono umane, troppo umane, si direbbe con un modulo nietzscheano. Fanno unitariamente una vicenda, quella della sfida ad avere il coraggio e la gioia di esporsi al rischio, ad andare verso dimensioni più vaste e luminose, a verificare le risorse inventive al di là dei limiti raggiunti, a saper giocare con la cultura del passato, come con quella di oggi.
Ugo Piscopo
Chi è Antonio Izzo
È nato a Torre del Greco (Na) il 25 Settembre del 1945. È stato docente di Disegno professionale e progettazione presso l’Istituto Statale d’Arte di Torre del Greco dove attualmente vive e lavora. “Antonio Izzo, nei primi anni Settanta, ha esordito attraverso l’esperienza dell’informale. Per chi s’orienta verso la pratica creativa del non figurativo, specialmente a Napoli, la poetica incondizionata dell’informale, delle sue trasparenti e materiche tessiture attraverso l’invisibile costituisce un viatico inevitabile. Al suo interno la condotta del segno, come del trascinamento di spunti e citazioni dal mondo esterno, costituiva, una pratica idonea al registro più ampio e libero verso il mondo interiore e di quello fatto di realtà fisiche e appariscenti nel mondo esterno. Ciò che distingue il dettato d’immagine nelle prime composizioni informali di Izzo si mostra subito consonante con la filigrana costruttiva, di tenuta logica caratterizzante l’impianto di fondo delle sue opere. Una chiave compositiva che fa sentire la generativa incidenza e costanza proprio attraverso il tessuto sconnesso delle compagini di pittura informale. Forse ciò che rende specifico il verso poetico di Izzo è proprio questa congiunzione stretta con cui si lega il segno corsivo, a volte fatto di materia, di rilievi e scavi, e la trama logica dei campi pittorici. Congiunzione che porta in immagine un flusso intimo di sensazioni e visioni e il registro diretto verso forme e oggetti, spesso ricalcati o prelevati, dal mondo sociale. La sua dimensione lirica non si chiude nella soggettività ma si fa sguardo di orditi costruttivi, di osservazione oggettiva e prensile verso le cose circostanti. Sta all’interno di tale relazione vissuta tra privato e pubblico, tra lirismo e sociale, la disponibilità con cui Izzo si dedica negli anni Settanta attraverso i condivisi intenti espressivi del Gruppo Arti Visive. Un modo di fare arte in un campo diretto di relazioni con la comunicazione e i comportamenti del mondo pubblico. In anni, quali furono i Settanta e non solo da noi, di grande successo delle forme di produzione moltiplicativa e seriale Izzo, portato a coltivare e sedimentare per il suo fare in pittura ogni segno espressivo di tecniche e pratiche artistiche, personificò all’interno del Gruppo Arti Visive la mano fattiva. Quella del suo atelier, il telaio serigrafico che divenne lo strumento operativo per il messaggio che il gruppo mise in atto verso le realtà sociali e comunicative del proprio tempo”.
Luigi Paolo Finizio
Chi è Gianni Rossi
Nasce il 22 marzo 1944 ad Angri (Sa), dove vive e lavora. Diplomato in Decorazione Pittorica all’Istituto Statale d’Arte, consegue successivamente il Magistero di Belle Arti di Napoli. Espone dal 1968. Esponente dell’arte astratto-geometrica del Sud, ha tenuto mostre personali in Italia e all’estero, ed è presente in numerose collezioni pubbliche e private. Prevalentemente attivo in pittura, ma autore altresì di pregevoli libri d’arte con monotipi, incisioni, serigrafie e di installazioni, l’artista ha svolto fino al 1995 anche una notevole attività di operatore culturale. E’ presente in dizionari e compendi storici dell’arte italiana del secondo dopoguerra.
Scritto da: Arianna Sartori
Data: 16 Febbraio 2019
Categoria: Mostre